Sabato 14 Ottobre 2017, in
occasione della settimana internazionale del F.A.R.E. la Polisportiva San
Precario ha organizzato la seconda edizione della Football Cup – We Want To
Play. Un triangolare di calcio a cinque tra i ragazzi del nostro Welcome Team,
gli amici del Quadrato Meticcio di Padova e una delegazione della Cooperativa
Orizzonti. Una giornata di festa, musica e condivisione che è servita da
trampolino di lancio per il secondo anno di attività della campagna We Want To
Play. A distanza di quasi nove mesi dalla
pubblicazione del primo appello ufficiale, divulgato il 26 Gennaio 2017, la
campagna We Want To Play lanciata proprio dalla Polisportiva San Precario in
collaborazione con circa quaranta tra associazioni, squadre e realtà sportive,
ha ormai assunto rilevanza nazionale nel campo dell’accessibilità allo sport.
La domanda di modificare i punti b e c dell'articolo 40 comma
1.1 del NOIF (Norme Organizzative Interne FIGC) si è infatti rivelata
esemplificativa per quello che riguarda l’inadeguatezza di numerose norme di
varie federazioni sportive.
L’impatto della campagna, nata
per sollevare una critica alle oggettive difficoltà riscontrate nel
tesseramento di giocatori stranieri nei campionati di calcio, in particolare
dilettantistici, è da ricercarsi nella sua coerenza con problematiche che non
si limitano al solo mondo sportivo. Come sottolineato fin dall’inizio dei
lavori, le questioni relative alle discriminazioni legate al tesseramento di
una persona straniera sono sintomatiche di una istituzionalità che non riesce o
non vuole equipararsi alle esigenze dettate dal momento storico nella quale
essa sta agendo.
La gestione dei flussi
migratori è diventato uno dei principali temi di dibattito dell’epoca
contemporanea e le ragioni che hanno determinato l’incapacità italiana ed
europea di trovare una quadratura del cerchio o quantomeno di essere in grado
di focalizzarsi sulle giuste vertenze per riuscire ad affrontare quella che una
gestione miope e individualista ha fatto sì che divenisse un’emergenza, sono da
ricercarsi anche in aspetti che a primo impatto possono sembrare secondari. Lo
sport ne è certamente un esempio.
Purtroppo a questo proposito,
nonostante la pertinenza delle vertenzialità sollevate dalla campagna, sul
piano istituzionale non si è mosso ancora nulla.
Anche quest’anno infatti ci
siamo ritrovati a dover dire ad alcuni nostri compagni di squadra e amici che
alla domenica non sarebbero potuti scendere in campo con noi, senza essere in
grado di giustificare una presa di posizione oggettivamente ridicola.
MODFICARE L'ARTICOLO 40 DEL NOIF
Come più volte ribadito nei
numerosi documenti rilasciati in questi nove mesi di attività, per tesserare un
atleta straniero o un’atleta straniera in FIGC, il NOIF – approvato in data 31
Luglio 2014 - ne richiede un certificato di residenza in Italia e un permesso di soggiorno che non scada prima del
31 Gennaio dell’anno di conclusione del campionato sportivo.
E’ bene specificare che le
limitazioni imposte al tesseramento di giocatrici e giocatori stranieri sono
state inizialmente inserite proprio a tutela degli stessi. L’intero articolo
40, diviso in cinque commi e più di trenta punti, dovrebbe teoricamente
scongiurare un meccanismo, diffuso in particolare nelle squadre
professionistiche, secondo il quale giovani calciatori erano letteralmente
prelevati dai loro paesi di origine salvo poi venire abbandonati, sotto ogni
aspetto, in caso di rilevata inadeguatezza.
Alla luce di questa analisi,
per capire le motivazioni che hanno spinto la Polisportiva San Precario a dare
il via alla campagna We Want To Play, è necessario ampliare il contesto in cui
inserirne le considerazioni.
Stando ai dati raccolti
dall’UNHCR (Alto Commissariati delle Nazioni Unite per i Rifugiati),
oggigiorno, circa venti persone ogni minuto sono costrette ad abbandonare la
propria casa. Dati che riguardano persone che per i più disparati motivi non
possono più vivere in sicurezza nei propri paesi di origine. Persone quindi che
godono di diritto dello status di rifugiato o che hanno presentato domanda di
asilo per ottenere protezione internazionale. Dei quasi 70 milioni di individui
che nel 2016 si sono ritrovati in queste particolari condizioni, 247.992 sono
giunti in Italia. Tra questi, 147.370 godevano già dello status di rifugiato e
99.221 erano richiedenti asilo. Un dato che rappresenta il massimo storico per
il nostro paese, in tendenza con l’incremento riscontrato negli ultimi tre
anni, durante i quali, sempre in Italia, sono state accolte più di mezzo
milione di persone.
Un incremento oggettivo
fortemente dovuto a eventi contingenti, legati a instabilità geopolitica e
conflitti all’interno dei quali in molti casi si riscontra un coinvolgimento
delle stesse nazioni che ora si ritrovano in difficoltà nella gestione dei
flussi migratori.
A fronte di un trend mondiale
di aumento della mobilità, le Nazioni europee maggiormente coinvolte nelle
dinamiche di accoglienza hanno risposto con politiche sempre più nazionaliste e
selettive. In particolare in Italia, secondo i dati ISTAT relativi al 2015, su
un totale di 71.345 prime istanze, solo al 42% degli interessati è stata
garantita protezione, in varie forme. Un numero al di sotto della media europea
che scende addirittura al 5% se facciamo riferimento in particolare allo status
di rifugiato. Dato quasi irrisorio se prendiamo a esempio il 55% toccato dalla
Germania.
Se pur viziati ulteriormente
da tempistiche spesso insostenibilmente lunghe, l’impatto di numeri come questi
tuttavia è di scarso significato se non viene integrato con un quadro chiaro di
come viene gestita l’accoglienza in Italia. Un meccanismo che presenta numerose
incongruenze e insolvenze in tutto il suo percorso, a partire dal soccorso in
mare e dai centri di prima accoglienza, fino ad arrivare alle diverse
articolazioni delle procedure di seconda accoglienza e integrazione.
Una problematica inasprita dal
fatto che i richiedenti asilo a cui viene negata la protezione o coloro che
entrano illegalmente nel paese, vengono obbligati a lasciare i confini e fare
ritorno nel Paese d’origine entro sette giorni. Nel caso in cui ciò non
avvenga, i richiedenti asilo che fino a quel giorno godevano di un permesso di soggiorno
provvisorio, permangono in una situazione di illegalità alla quale subentra il
fenomeno delle espulsioni. Espulsioni che, nella maggioranza dei casi, non sono
eseguibili, poiché per la loro attuazione è necessaria la collaborazione del
paese d’origine per il rilascio di un documento di viaggio. Collaborazione che,
salvo casi eccezionali, è spesso negata. In questo modo, quelli che ora sono
giuridicamente riconosciuti come clandestini entrano in un continuo limbo tra
CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e clandestinità.
La strada intrapresa dal
Ministro Minniti, l’insensato accanimento contro le ONG che operano nel
Mediterraneo e in generale le politiche di esclusione applicate dall’intera
comunità europea, altro non sono che un goffo tentativo di evitare una
discussione scomoda.
Ciò che notiamo è una generale
defocalizzazione delle vertenze riguardandanti la gestione dei flussi
migratori. Giorno dopo giorno quel che emerge dal sempre più acceso dibattito
pubblico e politico sembra dare per assunto che il problema sia rappresentato
dai migranti stessi.Anche i partiti che per definizione e DNA dovrebbero
difendere una posizione umanitaria, in una visione aberrante della realtà
storica con la quale si devono interfacciare, vanno alla ricerca di una
soluzione intesa come diminuzione del numero di migranti che ogni giorno
sbarcano sulle nostre coste, applicando un pericoloso scambio nel rapporto
causa effetto. L’equazione secondo la quale da un aumento sensibile del numero
di migranti derivano i problemi, perde di significato nel momento in cui viene
tralasciata la variabile determinante che riguarda la gestione
dell’accoglienza.
Tentare di arginare un inevitabile fenomeno storico di
portata globale, quale l’aumento della mobilità, attraverso il blocco dello
stesso fenomeno anziché tramite un adeguamento del dibattito politico alle
questioni che esso ci pone, può dare l’idea di una soluzione rapida e concreta
ma chiunque con un minimo di coscienza storica può capire che ci stiamo
crogiolando in decisioni che assumono sempre più la forma di un palliativo. In
parole povere ciò che si sta facendo è identificare il problema con il migrante
in quanto persona anziché nell’incapacità dello Stato di gestirne l’arrivo.
La stessa Comunità Europea, nella Dichiarazione di Nizza,
riconosce il valore e l’incredibile potenziale che lo sport può avere:
“Lo sport è un'attività umana
che si fonda su valori sociali, educativi e culturali essenziali. È un fattore
di inserimento, di partecipazione, di tolleranza, di accettazione delle
differenze e di rispetto delle regole. L'attività sportiva deve essere
accessibile a tutte e a tutti, nel rispetto delle aspirazioni e delle capacità
di ciascuno e nella diversità delle pratiche agonistiche o amatoriali,
organizzate o individuali”.
OPTI' POBA
Siamo convinti che i due
articoli in questione non vadano aboliti, proprio per evitare di ricadere nello stesso meccanismo che ne
ha spinto la stesura. Tuttavia, e in questo consisterà il prossimo passo della
campagna, siamo fermamente decisi a modificare quegli stessi articoli che a
oggi appaiono discriminatori e fuori dal tempo.
Se vogliamo crescere e superare
il problema che ci si sta parando di fronte, oltre a combattere le attuali
politiche di chiusura, la nostra attività non si può neanche fermare a un
discorso di semplice assistenzialismo. La visione per la quale il migrante va
salvato, è deleteria tanto quanto le politiche europee che stiamo vedendo messe
in atto. Chi scappa dal proprio Paese per venire in Europa non lo fa per essere
salvato o per essere assistito. Ciò che queste persone chiedono è la
possibilità di costruirsi una nuova vita. Accogliere non significa solo garantire un pasto o un tetto, cosa che per altro
non stiamo facendo, accogliere significa costruire percorsi di emancipazione.
Esistono centinaia di
realtà sparse per tutta la penisola che giorno dopo giorno dimostrano che un
accoglienza degna è possibile. Realtà che creano posti di lavoro e reddito,
realtà che offrono servizi e che sono indispensabili anche per gli italiani.
Allo stesso modo non capiamo come impedire a qualcuno di giocare a pallone, ossia di accedere all'universale diritto della pratica sportiva possa essere in qualche modo utile. Isolare le persone non farà
altro che accrescere quel meccanismo nocivo che vede una differenza tra noi e
loro. Un meccanismo che porta a diffidenza e disperazione e che in alcun modo
potrà contribuire a una soluzione del problema.
WE WANT TO PLAY...CON OGNI MEZZO NECESSARIO
"Lo sport è parte del patrimonio di ogni uomo
e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata".
Le giornate di Sabato e Domenica hanno rappresentato la ripresa di un percorso che si potrà definire concluso solo ad obiettivo ottenuto. Modificare l'articolo 40 del noif. Permettere a tutti di accedere all'universale diritto della pratica sportiva senza distinzione di genere e di credo, di colore e di etnia. Aprire a partire dal linguaggio dello sport, uno spazio di riflessione e trasformazione attorno alla questioni della cittadinanza e dei diritti nel nostro paese!
Nessuno è illegale per giocare a pallone! Ama lo sport! Odia il razzismo!
Guarda anche i contributi multimediali raccolti nella giornata di Sabato al link: We Want to play - fare - report multimediale
Nessuno è illegale per giocare a pallone! Ama lo sport! Odia il razzismo!
Guarda anche i contributi multimediali raccolti nella giornata di Sabato al link: We Want to play - fare - report multimediale
Nessun commento:
Posta un commento