.

.

venerdì 20 ottobre 2017

FARE NETWORK - WE WANT TO PLAY #1: Minniti, Tavecchio, il gioco del pallone!

Sabato 14 Ottobre 2017, in occasione della settimana internazionale del F.A.R.E. la Polisportiva San Precario ha organizzato la seconda edizione della Football Cup – We Want To Play. Un triangolare di calcio a cinque tra i ragazzi del nostro Welcome Team, gli amici del Quadrato Meticcio di Padova e una delegazione della Cooperativa Orizzonti. Una giornata di festa, musica e condivisione che è servita da trampolino di lancio per il secondo anno di attività della campagna We Want To Play. A distanza di quasi nove mesi dalla pubblicazione del primo appello ufficiale, divulgato il 26 Gennaio 2017, la campagna We Want To Play lanciata proprio dalla Polisportiva San Precario in collaborazione con circa quaranta tra associazioni, squadre e realtà sportive, ha ormai assunto rilevanza nazionale nel campo dell’accessibilità allo sport. La domanda di modificare i punti b e c dell'articolo 40 comma 1.1 del NOIF (Norme Organizzative Interne FIGC) si è infatti rivelata esemplificativa per quello che riguarda l’inadeguatezza di numerose norme di varie federazioni sportive.

 RICOMINCIANO I CAMPIONATI, RICOMINCIANO LE DISCRIMINAZIONI

L’impatto della campagna, nata per sollevare una critica alle oggettive difficoltà riscontrate nel tesseramento di giocatori stranieri nei campionati di calcio, in particolare dilettantistici, è da ricercarsi nella sua coerenza con problematiche che non si limitano al solo mondo sportivo. Come sottolineato fin dall’inizio dei lavori, le questioni relative alle discriminazioni legate al tesseramento di una persona straniera sono sintomatiche di una istituzionalità che non riesce o non vuole equipararsi alle esigenze dettate dal momento storico nella quale essa sta agendo.

La gestione dei flussi migratori è diventato uno dei principali temi di dibattito dell’epoca contemporanea e le ragioni che hanno determinato l’incapacità italiana ed europea di trovare una quadratura del cerchio o quantomeno di essere in grado di focalizzarsi sulle giuste vertenze per riuscire ad affrontare quella che una gestione miope e individualista ha fatto sì che divenisse un’emergenza, sono da ricercarsi anche in aspetti che a primo impatto possono sembrare secondari. Lo sport ne è certamente un esempio.

Purtroppo a questo proposito, nonostante la pertinenza delle vertenzialità sollevate dalla campagna, sul piano istituzionale non si è mosso ancora nulla.
Anche quest’anno infatti ci siamo ritrovati a dover dire ad alcuni nostri compagni di squadra e amici che alla domenica non sarebbero potuti scendere in campo con noi, senza essere in grado di giustificare una presa di posizione oggettivamente ridicola.

MODFICARE L'ARTICOLO 40 DEL NOIF 

Come più volte ribadito nei numerosi documenti rilasciati in questi nove mesi di attività, per tesserare un atleta straniero o un’atleta straniera in FIGC, il NOIF – approvato in data 31 Luglio 2014 - ne richiede un certificato di residenza in Italia e  un permesso di soggiorno che non scada prima del 31 Gennaio dell’anno di conclusione del campionato sportivo.

E’ bene specificare che le limitazioni imposte al tesseramento di giocatrici e giocatori stranieri sono state inizialmente inserite proprio a tutela degli stessi. L’intero articolo 40, diviso in cinque commi e più di trenta punti, dovrebbe teoricamente scongiurare un meccanismo, diffuso in particolare nelle squadre professionistiche, secondo il quale giovani calciatori erano letteralmente prelevati dai loro paesi di origine salvo poi venire abbandonati, sotto ogni aspetto, in caso di rilevata inadeguatezza.
Alla luce di questa analisi, per capire le motivazioni che hanno spinto la Polisportiva San Precario a dare il via alla campagna We Want To Play, è necessario ampliare il contesto in cui inserirne le considerazioni.

PER UNA CITTADINANZA SPORTIVA

Stando ai dati raccolti dall’UNHCR (Alto Commissariati delle Nazioni Unite per i Rifugiati), oggigiorno, circa venti persone ogni minuto sono costrette ad abbandonare la propria casa. Dati che riguardano persone che per i più disparati motivi non possono più vivere in sicurezza nei propri paesi di origine. Persone quindi che godono di diritto dello status di rifugiato o che hanno presentato domanda di asilo per ottenere protezione internazionale. Dei quasi 70 milioni di individui che nel 2016 si sono ritrovati in queste particolari condizioni, 247.992 sono giunti in Italia. Tra questi, 147.370 godevano già dello status di rifugiato e 99.221 erano richiedenti asilo. Un dato che rappresenta il massimo storico per il nostro paese, in tendenza con l’incremento riscontrato negli ultimi tre anni, durante i quali, sempre in Italia, sono state accolte più di mezzo milione di persone.
Un incremento oggettivo fortemente dovuto a eventi contingenti, legati a instabilità geopolitica e conflitti all’interno dei quali in molti casi si riscontra un coinvolgimento delle stesse nazioni che ora si ritrovano in difficoltà nella gestione dei flussi migratori.

A fronte di un trend mondiale di aumento della mobilità, le Nazioni europee maggiormente coinvolte nelle dinamiche di accoglienza hanno risposto con politiche sempre più nazionaliste e selettive. In particolare in Italia, secondo i dati ISTAT relativi al 2015, su un totale di 71.345 prime istanze, solo al 42% degli interessati è stata garantita protezione, in varie forme. Un numero al di sotto della media europea che scende addirittura al 5% se facciamo riferimento in particolare allo status di rifugiato. Dato quasi irrisorio se prendiamo a esempio il 55% toccato dalla Germania.
Se pur viziati ulteriormente da tempistiche spesso insostenibilmente lunghe, l’impatto di numeri come questi tuttavia è di scarso significato se non viene integrato con un quadro chiaro di come viene gestita l’accoglienza in Italia. Un meccanismo che presenta numerose incongruenze e insolvenze in tutto il suo percorso, a partire dal soccorso in mare e dai centri di prima accoglienza, fino ad arrivare alle diverse articolazioni delle procedure di seconda accoglienza e integrazione.

Una problematica inasprita dal fatto che i richiedenti asilo a cui viene negata la protezione o coloro che entrano illegalmente nel paese, vengono obbligati a lasciare i confini e fare ritorno nel Paese d’origine entro sette giorni. Nel caso in cui ciò non avvenga, i richiedenti asilo che fino a quel giorno godevano di un permesso di soggiorno provvisorio, permangono in una situazione di illegalità alla quale subentra il fenomeno delle espulsioni. Espulsioni che, nella maggioranza dei casi, non sono eseguibili, poiché per la loro attuazione è necessaria la collaborazione del paese d’origine per il rilascio di un documento di viaggio. Collaborazione che, salvo casi eccezionali, è spesso negata. In questo modo, quelli che ora sono giuridicamente riconosciuti come clandestini entrano in un continuo limbo tra CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e clandestinità.

L'INSOSTENIBILE LENTEZZA DELLA POLITICA 

La strada intrapresa dal Ministro Minniti, l’insensato accanimento contro le ONG che operano nel Mediterraneo e in generale le politiche di esclusione applicate dall’intera comunità europea, altro non sono che un goffo tentativo di evitare una discussione scomoda.

Ciò che notiamo è una generale defocalizzazione delle vertenze riguardandanti la gestione dei flussi migratori. Giorno dopo giorno quel che emerge dal sempre più acceso dibattito pubblico e politico sembra dare per assunto che il problema sia rappresentato dai migranti stessi.Anche i partiti che per definizione e DNA dovrebbero difendere una posizione umanitaria, in una visione aberrante della realtà storica con la quale si devono interfacciare, vanno alla ricerca di una soluzione intesa come diminuzione del numero di migranti che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste, applicando un pericoloso scambio nel rapporto causa effetto. L’equazione secondo la quale da un aumento sensibile del numero di migranti derivano i problemi, perde di significato nel momento in cui viene tralasciata la variabile determinante che riguarda la gestione dell’accoglienza.

Tentare di arginare un inevitabile fenomeno storico di portata globale, quale l’aumento della mobilità, attraverso il blocco dello stesso fenomeno anziché tramite un adeguamento del dibattito politico alle questioni che esso ci pone, può dare l’idea di una soluzione rapida e concreta ma chiunque con un minimo di coscienza storica può capire che ci stiamo crogiolando in decisioni che assumono sempre più la forma di un palliativo. In parole povere ciò che si sta facendo è identificare il problema con il migrante in quanto persona anziché nell’incapacità dello Stato di gestirne l’arrivo.

 Alla luce di questa analisi la relazione tra mala gestione dei flussi migratori e relative problematiche legate all’accoglienza, e la nostra campagna, diventa piuttosto evidente. Se, come detto, la soluzione non può essere fermare l’arrivo di queste persone ma può e deve essere ricercata in un miglioramento dei processi di accoglienza e di integrazione, come possiamo pretendere di favorire qualsiasi tipo di processo integrativo se poniamo delle limitazioni discriminatorie anche per processi basilari come il diritto alla pratica sportiva?
La stessa Comunità  Europea, nella Dichiarazione di Nizza, riconosce il valore e l’incredibile potenziale che lo sport può avere:

“Lo sport è un'attività umana che si fonda su valori sociali, educativi e culturali essenziali. È un fattore di inserimento, di partecipazione, di tolleranza, di accettazione delle differenze e di rispetto delle regole. L'attività sportiva deve essere accessibile a tutte e a tutti, nel rispetto delle aspirazioni e delle capacità di ciascuno e nella diversità delle pratiche agonistiche o amatoriali, organizzate o individuali”.

OPTI' POBA

 Per ciò che riguarda la FIGC dunque, è importante capire che ciò che poteva andare bene cinque anni fa ora è diventato obsoleto. Se una volta la necessità era proteggere i ragazzi che venivano prelevati dai loro paesi per venire a giocare a pallone in Italia, ora è necessario che il regolamento si adatti alle evoluzioni che la società sta vivendo.
Siamo convinti che i due articoli in questione non vadano aboliti, proprio per evitare di ricadere nello stesso meccanismo che ne ha spinto la stesura. Tuttavia, e in questo consisterà il prossimo passo della campagna, siamo fermamente decisi a modificare quegli stessi articoli che a oggi appaiono discriminatori e fuori dal tempo.

Se vogliamo crescere e superare il problema che ci si sta parando di fronte, oltre a combattere le attuali politiche di chiusura, la nostra attività non si può neanche fermare a un discorso di semplice assistenzialismo. La visione per la quale il migrante va salvato, è deleteria tanto quanto le politiche europee che stiamo vedendo messe in atto. Chi scappa dal proprio Paese per venire in Europa non lo fa per essere salvato o per essere assistito. Ciò che queste persone chiedono è la possibilità di costruirsi una nuova vita. Accogliere non significa solo garantire un pasto o un tetto, cosa che per altro non stiamo facendo, accogliere significa costruire percorsi di emancipazione. 

Esistono centinaia di realtà sparse per tutta la penisola che giorno dopo giorno dimostrano che un accoglienza degna è possibile. Realtà che creano posti di lavoro e reddito, realtà che offrono servizi e che sono indispensabili anche per gli italiani. Allo stesso modo non capiamo come impedire a qualcuno di giocare a pallone, ossia di accedere all'universale diritto della pratica sportiva possa essere in qualche modo utile. Isolare le persone non farà altro che accrescere quel meccanismo nocivo che vede una differenza tra noi e loro. Un meccanismo che porta a diffidenza e disperazione e che in alcun modo potrà contribuire a una soluzione del problema.

WE WANT TO PLAY...CON OGNI MEZZO NECESSARIO



"Lo sport è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata".

Le giornate di Sabato e Domenica hanno rappresentato la ripresa di un percorso che si potrà definire concluso solo ad obiettivo ottenuto. Modificare l'articolo 40 del noif. Permettere a tutti di accedere all'universale diritto della pratica sportiva senza distinzione di genere e di credo, di colore e di etnia. Aprire a partire dal linguaggio dello sport, uno spazio di riflessione e trasformazione attorno alla questioni della cittadinanza e dei diritti nel nostro paese!

Nessuno è illegale per giocare a pallone! Ama lo sport! Odia il razzismo!

Guarda anche i contributi multimediali raccolti nella giornata di Sabato al link: We Want to play - fare - report multimediale





                                                                                                                    




Nessun commento:

Posta un commento